mercoledì 15 giugno 2011

Un divorzio tardivo



Yehudà Kaminka è un vecchio padre di famiglia che torna in Israele dagli Stati Uniti per recidere per sempre il legame con la sua vecchia moglie, ricoverata in un ospedale psichiatrico. Una pratica che deve essere chiusa per fare sì che Yehudà possa sposare una donna statunitense dalla quale sta aspettando un bambino. L’operazione deve durare poco tempo, la ex- moglie ha dato l’assenso al divorzio quindi basta incontrarsi, firmare dei fogli e poi finalmente tornare alla libertà e alla nuova vita. Dagli Stati Uniti, quando aveva programmato  questa visita in Israele probabilmente il vecchio non aveva fatto i conti con il fatto che avrebbe rivisto i suoi figli, i suoi nipoti, i luoghi dove aveva vissuto tanto tempo e con i ricordi di quasi tutta una vita.


Nove giorni  prima della Pasqua ebraica vissuti intensamente che rievocano tutta la storia della sua famiglia che ha trasformato l’amore prima in odio, poi in violenza (la ex- moglie Na’omi ha tentato anni prima di ucciderlo)ma mai in indifferenza.  Il momento culminante è appunto  il giorno di Pasqua, parola che può essere tradotta in italiano in “passaggio” oppure  “liberazione” e che fa da punto di arrivo del percorso di una vita e l’inizio di qualcosa di nuovo. E’ la liberazione dal vecchio vincolo sentimentale e è anche un nuovo inizio. Di fatto il legame non si reciderà, rimarrà tale e quale, con o senza carte firmate e si risolverà solo con la morte.

Il romanzo dà voce in ogni capitolo ad un componente della famiglia che offre una lettura personale degli eventi accaduti nel passato e che esprime sentimenti diversi verso il padre, la madre o gli altri membri del gruppo.  Sullo sfondo,  troviamo anche personaggi minori che si affacciano dentro il grande dolore della famiglia ma che non riescono mai ad addentrarsi davvero nella sua sofferenza. Rimangono a guardare, affannandosi a capire o a cercare soluzioni inutili. Mi riferisco al cognato Kedmi , gran chiacchierone, sempre pronto a battute acide e sarcastiche o alla bellissima ma trasparente cognata Dina. I figli, invece, oscillano tra l’accettazione del desiderio di liberazione del padre e della sua voglia di rifarsi una vita altrove e la sofferenza della madre che vive di sua volontà in una casa di cura per malati mentali perché non ha altri posti dove vivere e non ha un progetto di vita alternativo a quello della famiglia ormai disciolta. Naturalmente, oltre alla vicenda dei due genitori affiorano anche le loro vicende personali.  Tutti risentono dei fatti accaduti, nessuno di loro è felice, il padre e la madre hanno lasciato loro, come eredità, un’infelicità di fondo, un’ insoddisfazione generale per quello che hanno o non hanno fatto per tenere insieme il gruppo familiare. E forse, la madre che viene considerata  “la pazza” alla fine non si discosta tanto dai suoi figli e dal vecchio che invece si ritengono “normali”. E’ lei che ha provocato la deflagrazione finale, è lei che si è presa la responsabilità della fine della storia e di essere il capro espiatorio di tutto ma, come sempre accade, non è lei l’unica colpevole. 

Il romanzo è facilmente leggibile in chiave psicanalitica ovvero tratta la fine di un amore, con il conseguente disfacimento della famiglia e i suoi effetti  su ogni membro. Si tratta di una vera e propria tragedia, nel senso classico del termine, i cui frutti ne risentono non solo i figli ma anche i piccoli nipoti che saranno influenzati dalla sofferenza provocata da un sentimento così forte, indissolubile, totale.  La conclusione è che non sia possibile sciogliere legami così intensi,  siano questi d’amore o d‘odio, solo la morte rappresenta  l’unica vera soluzione. E comunque,  per quanto malato , l’amore tra Na’omi e Yehudà è sicuramente più forte e vero di quanto non lo siano quelli dei loro figli. Tutti si portano dentro la propria  angoscia e i mali irrisolti che non fanno vivere loro appieno le proprie vite ma piuttosto li fanno fluttuare tra gli eventi . L’arrivo del padre non fa altro che far riaffiorare i loro dolori ma nello stesso tempo porta la speranza della soluzione, dell’affrancamento dalla pena che li affligge. E’ come se il romanzo fosse una grande seduta psicoanalitica in cui tutti si confrontano con il passato e con il presente, con sé stessi e con i propri cari e alla fine riescono a sciogliere, ognuno a modo suo, il nodo che li unisce e che li divide.

Tutto il microcosmo familiare descritto non può non farci venire in mente un altro microcosmo in cui avvengono fatti decisivi per tutto un popolo ovvero la situazione politica dello stato di Israele. Il problema dell’appartenenza agli Ebrei autoctoni o a quelli della diaspora, dell’identità di tutto un popolo, della tradizione che si scontra con la modernità.

Un grande libro, intenso, denso, che regala emozioni, che fa nascere sentimenti discordi per i vari personaggi,  tutto orchestrato dallo scrittore con la sua prosa elegante, lucida, che dona descrizioni limpide degli animi tormentati dei protagonisti.  Un romanzo polifonico in cui tutti convergono verso la soluzione  finale che è rappresentata dalla fine della fuga di Yehudà e dalla sua morte.

Abraham B. Yehoshua , Un divorzio tardivo, Einaudi Supercoralli, 1996.

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